Sentenze a favore di cittadini svizzeri

Daniel Monnat vs. Confederazione Svizzera – 21 settembre 2006

Violazione dell’articolo 10: libertà di espressione di un giornalista svizzero

Il 21 settembre 2006, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha riconosciuto una violazione da parte della Svizzera della libertà d’espressione nei confronti di Daniel Monnat, un giornalista svizzero.

Al momento dei fatti Daniel Monnat è il giornalista responsabile dell’emissione televisiva “Temps présent” della RTS. Nel 1997 manda in onda il reportage da lui diretto “L’honneur perdu de la Suisse” sul ruolo della Svizzera durante la Seconda guerra mondiale.

Il reportage in questione suscita aspre critiche sollevate da alcuni gruppi della popolazione che di seguito si rivolgono all’Autorità d’esame indipendente in materia di radiotelevisione, la quale ha dato loro ragione e ha impedito la diffusione del reportage. Monnat, dal canto suo, decide di fare ricorso al Tribunale federale, appellandosi alla libertà d’espressione. Il Tribunale respinge il ricorso del giornalista applicando una restrizione della libertà d’espressione, giustificata a suo avviso non tanto dal contenuto del reportage, ma piuttosto dalla sua forma. In altre parole, dal punto di vista del Tribunale federale il giornalista avrebbe dovuto esplicitare che l’emissione rappresentava “una possibile interpretazione delle relazioni Svizzera-Germania, e non una verità incontestabile”. L’emissione è stata di conseguenza messa sotto “embargo giuridico” e ne è stata proibita formalmente la vendita. In sostanza il reportage di Daniel Monnat è stato censurato dalle autorità.

Non soddisfatto della decisione del Tribunale federale, Daniel Monnat decide di fare ricorso alla Corte europea. L’esame del caso verte quindi sulla legittimità da parte della Svizzera di restringere la libertà di espressione dei suoi cittadini. La base legale sulla quale si svolge il contenzioso è l’articolo 10 paragrafo 2 della Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo. Nello specifico, la Corte europea ha voluto chiarire se la restrizione della libertà di espressione fosse proporzionata al fine perseguito dalla Svizzera in quanto stato democratico. Sollevando più argomenti, che cercheremo di riassumere di seguito, la Corte ha concluso che la restrizione non è legittima e quindi la Svizzera ha violato la libertà di espressione di Daniel Monnat.

In primo luogo la Corte ha riconosciuto che il ruolo della Svizzera durante la Seconda guerra mondiale è un argomento ancora dibattuto dagli storici e non spetta a lei analizzare questa questione. Allo stesso modo però, la questione riveste un interesse generale a livello nazionale e per questo motivo diffondere informazioni al riguardo rientra perfettamente nel ruolo che i media devono avere in una società democratica. Inoltre, la Corte sottolinea come le critiche ai personaggi politici e ai funzionari possono essere più estese di quelle fatte alle persone private. A questo proposito il reportage di Daniel Monnat non mette in discussione l’attitudine della popolazione svizzera, bensì quella della classe dirigente del periodo. Per quanto concerne le critiche sollevate da alcuni telespettatori, la Corte dichiara che quest’ultime non possono giustificare una restrizione della libertà d’espressione. In effetti, in una società aperta e tollerante e dunque democratica, la libertà di espressione non si limita a proteggere l’informazione in senso stretto, ma anche le opinioni che possono urtare o perfino scioccare alcuni gruppi della società. Infine, per quanto concerne l’argomento sollevato dal Tribunale federale, vale a dire che Monnat avrebbe dovuto presentare il reportage come un suo punto di vista e non come una verità incontestabile, la Corte sottolinea come il giornalista si sia basato per l’emissione solo su ricerche storiche e quindi abbia agito in buona fede.


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Howald Moor e altri vs. Confederazione Svizzera – 11 marzo 2014

Violazione dell’articolo 6 CEDU: diritto a un processo equo per le vittime dell’amianto

Nel marzo del 2014 la Corte di Strasburgo ha concluso che la Svizzera ha violato il diritto ad un processo equo (articolo 6 della CEDU), non dando la possibilità alle vittime dell’amianto di richiedere un risarcimento. La decisione della Corte non si rifà al diritto di essere risarciti, bensì al diritto delle vittime d’amianto di poter portare in tribunale la propria richiesta. Nel caso specifico, questo diritto è stato negato a causa della rigida nozione di prescrizione vigente nel diritto svizzero.
Nel 2005 l’operaio Howald Moor è morto a causa del suo prolungato contatto con l’amianto negli anni ’70. I famigliari hanno dunque chiesto un risarcimento davanti ai tribunali svizzeri, quest’ultimi hanno però considerato prescritte le pretese avanzate e non hanno esaminato il caso.

La decisione dei tribunali si basa sulla nozione svizzera di prescrizione assoluta: il diritto di chiedere dei risarcimenti decade dopo 10 anni, calcolati a partire dal momento in cui la causa all’origine del danno ha avuto luogo.
Questa definizione è problematica nei casi di vittime dell’amianto. In questi casi specifici i 10 anni della prescrizione sono calcolati dal Tribunale federale dal momento in cui la persona è esposta alla polvere d’amianto. Tuttavia, a causa del lungo tempo che intercorre tra l’esposizione all’amianto e la manifestazione della malattia (tempo che supera di gran lunga i dieci anni), la possibilità di risarcimento per le vittime risulta di fatto nulla.

La Corte di Strasburgo ha messo in luce questa contraddizione e ha ritenuto, ai fini del diritto ad un processo equo, che i tribunali svizzeri dovrebbero tenere conto nel loro calcolo della prescrizione del tempo d’incubazione di determinate malattie, quando quest’ultimo è scientificamente provato come nel caso dell’amianto.

 


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Di Trizio vs. Confederazione Svizzera – 2 febbraio 2016

Violazione dell’articolo 8 e 14 CEDU: discriminazione delle donne che lavorano a tempo parziale

Uno dei calcoli impiegati dalla Svizzera per determinare l’AI è stato definito discriminatorio nei confronti delle donne da parte della Corte europea.

La signora Di Trizio ha dovuto, a causa di dolori alla zona lombare, smettere di lavorare al 100% nel 2002. Ha potuto così beneficiare di una rendita d’invalidità al 50%, questo però solamente fino al momento in cui ha avuto due bambini. Infatti, dal momento che la signora Di Trizio è diventata mamma e ha scelto di dedicare il 50% del suo tempo alla famiglia, il suo tasso d’invalidità è stato valutato al 27%, troppo basso per chiedere l’AI (il minimo è il 40%). Va sottolineato che la signora Di Trizio non ha rinunciato a lavorare, ma questa decisione le ha di fatto precluso la possibilità di richiedere l’AI.

Per determinare il tasso d’invalidità si è fatto ricorso nel suo caso al “calcolo misto” che si applica alle persone che svolgono un’altra attività (nel suo caso occuparsi dei figli) oltre a quella lucrativa. In sostanza, la condizione della signora Di Trizio è più svantaggiosa rispetto a quella di una persona con la stessa invalidità ma senza attività lavorativa, e, allo stesso tempo, a quella di una persona senza figli e quindi più propensa a lavorare a tempo pieno. Se la signora Di Trizio rinunciasse a lavorare sarebbe considerata invalida al 44%, se invece lavorasse al 100% il tasso d’invalidità salirebbe al 55%. Questo metodo è secondo lei discriminatorio e basato su una visione tradizionale della famiglia, caratterizzata dalla moglie che rimane a casa ad occuparsi dei figli e rinuncia quindi a lavorare.

Il Tribunale federale ha confermato che il calcolo misto può portare le donne a perdere il diritto all’AI nel caso in cui mettano al mondo dei figli. Ciò nonostante, esso afferma che questo problema sociale non sia legato ad un problema di salute e che quindi non spetta all’AI di compensarlo. Di Trizio ha fatto ricorso alla Corte di Strasburgo per violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare (articolo 8 CEDU) insieme all’articolo 14 CEDU che reprime la discriminazione.
La Corte ha prima di tutto sottolineato come l’applicazione del metodo di calcolo misto abbia una ripercussione sulla ripartizione dei compiti e ruoli famigliari e quindi un impatto sull’organizzazione professionale e famigliare.

In seguito, la Corte ha ritenuto il “calcolo misto” una discriminazione indiretta nei confronti delle donne (il 97% delle applicazioni di quest’ultimo ha riguardato donne). Si è poi chiesta se questa differenza di trattamento sia oggettivamente e ragionevolmente giustificata. Ha sottolineato come l’applicazione di questo metodo di calcolo svantaggi la gran parte delle donne che desiderano continuare a lavorare a tempo parziale per potersi occupare dei figli. Queste stesse sono in effetti discriminate rispetto a chi lavora a tempo pieno e a chi non lavora affatto. Questa discriminazione non è dunque proporzionata rispetto al fine legittimo perseguito dalla legge sull’assicurazione invalidità che è quello di coprire la perdita di lavoro causata dall’invalidità.

Non avendo trovato nessuna ragione che potesse giustificare questa discriminazione, la Corte ha affermato dunque che la Svizzera ha violato l’articolo 8 e 14 CEDU.

 


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