Fattore di protezione D – Tuteliamo il nostro diritto di ricorrere alla CEDU

Fattore di protezione D – Tuteliamo il nostro diritto di ricorrere alla CEDU

La signora Di Trizio, parrucchiera, aveva dei grossi problemi di salute. Non poteva più lavorare a tempo pieno. Ricevette quindi una mezza rendita d’invalidità per compensare (almeno in parte) la perdita di metà stipendio. Alla nascita della figlia, ecco la brutta sorpresa: le viene tolta questa entrata. Anche se non avesse avuto problemi di salute avrebbe ridotto l’attività lavorativa, per cui la riduzione dell’attività lucrativa non era più dovuta all’invalidità, ma alla nascita della figlia. Ergo, non vi era perdita di guadagno ai sensi dell’assicurazione invalidità. La famiglia si trovò in grosse difficoltà economiche, le sole entrate del marito non bastavano e i problemi di salute della madre le permettevano appena di occuparsi della figlia e della casa.

Per il Tribunale federale, questo modo di applicare il cosiddetto metodo misto per il calcolo del grado d’invalidità (e quindi della rendita) era corretto. Non fa niente se colpisce praticamente solo le donne (nel 98% dei casi). Per fortuna, la Corte europea per i diritti dell’uomo ha dato ragione alla signora Di Trizio: questa prassi viola il diritto alla vita privata e alla famiglia ed è discriminatoria. Nel frattempo, gli uffici AI si sono adeguati e il Consiglio federale ha finalmente modificato l’ordinanza sull’assicurazione invalidità per correggere questo calcolo del grado d’invalidità, criticato da anni. Non pretende più che la riduzione della capacità lavorativa per chi lavora a tempo parziale vada compensata lasciando perdere ogni lavoro non remunerato (lavori che, se monetizzati, creano il 41% del volume economico complessivo del Paese). E la sola nascita di un figlio non comporta più la perdita di un’entrata assicurativa. Ecco perché voterò NO all’Iniziativa contro i giudici stranieri!

Rosemarie Weibel, Massagno

Articolo apparso su LaRegione, 27 ottobre 2018