C’è un libro che è appena uscito e nessuno se n’è accorto. Ha la copertina di cartone duro e una bella grafica sobria, elegante. Se lo aprite, sulle prime due pagine troverete i ritratti dei trenta scrittori svizzeri che lo hanno scritto: ognuno interpreta, a modo suo, uno degli articoli della “Dichiarazione universale dei diritti umani”. È un’arma, questo libro, che spara un bel no contro l’iniziativa dell’Udc, della quale tanto si parla in questi giorni. Un libro che dimostra come esistano due Svizzere. L’immagine che emerge da questo “Menschenrechte. Weiterschreiben” (che si potrebbe tradurre con “Diritti umani. Continuare a scriverne”) pubblicato dalla casa editrice Salis di Zurigo a cura di Svenja Herrmann e Ulrike Ulrich, è quella di un paese creativo e critico. Consapevole di stare nel cuore dell’Europa e pronto a collaborare. Un paese attento ai diritti umani: che non hanno frontiere. Un paese che ha fondato la Croce Rossa e ha accolto Mazzini, un paese dove il comandante della polizia cantonale di San Gallo Paul Grüninger ha salvato centinaia di ebrei nel periodo 1938-1939, un paese coraggioso dove il Parlamento sa anche dire di no ai demagoghi. Questa Svizzera si contrappone alla terra dei sempre obbedienti, di quelli che ignorano o dimenticano, di quelli che coltivano la paura e l’ostilità, di quelli che se la prendono con i chierichetti con la pelle scura, di quelli che promuovono i nazisti, di quelli che si chiudono dietro la siepe della loro diffidenza a sventolare, dopo averla sequestrata, la bandiera della patria. E chi voleva respingere gli italiani cinquant’anni fa? Li ricordate? Proibito l’ingresso a cani e italiani, dicevano.
Oggi, promuovendo l’iniziativa contro i giudici stranieri, vorrebbero osteggiare, per fare un solo esempio, l’importante Corte europea dei diritti dell’uomo (vedi il recente caso delle famiglie di vittime dell’amianto, che hanno ottenuto giustizia solo a Strasburgo). Un’iniziativa che, in nome della patria, vuole intaccare la nostra libertà: che vuole intaccare, dunque, l’antico zoccolo di granito del quale andiamo fieri. Ci sono due Svizzere, ve l’ho detto. O forse c’è una Svizzera diversa per ognuno di noi, che è fatto a modo suo e non è disposto a seguire le direttive dei caporioni. La Svizzera che mi piace è questa qui: aperta al mondo. Come viene fuori dal libro citato sopra. Libro collettivo e plurilingue – contiene anche quattro testi in italiano – che torna a parlare di diritti umani, a settant’anni dalla loro proclamazione: perché è necessario tornare a parlarne. Era il dicembre 1948, quando l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite prese quella risoluzione. Io avevo otto anni, giocavo ignaro in un cortile a due passi dalla rete di confine, oltre la quale si era consumata l’ultima carneficina del secolo, ma non ne sapevo quasi niente. Forse avvertivo per aria uno strano odore di bruciato: ma mi era stato regalato un pallone di cuoio e sognavo di diventare il portiere della squadra di via Comacini. Non sapevo che stava per nascere una grande speranza, la speranza di poter vivere in un paese generoso, aperto al mondo, alla solidarietà: la speranza di una Svizzera in cui possano risuonare chiaramente le parole del primo articolo di quella “Dichiarazione” – un libriccino che ci sta comodamente nella tasca dei pantaloni o in una borsetta da donna: “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed uguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”. Non è tutta qui, la democrazia?
Alberto Nessi, scrittore
Articolo apparso su LaRegione, 21 novembre 2018