Edoardo Cappelletti – Autodeterminazione, un no tra due fuochi?

Edoardo Cappelletti – Autodeterminazione, un no tra due fuochi?

Il prossimo 25 novembre saremo chiamati a esprimerci sull’iniziativa per l’autodeterminazione, un oggetto la cui complessità, va riconosciuto, non è sempre stato compensata dal consistente numero di contributi apparsi al riguardo. Se a un estremo assistiamo a una retorica, rozza e grossolana, d’incondizionato rigetto del diritto internazionale; dall’altro possiamo riscontrare, se non un’idolatria di qualsivoglia trattato stipulato dalla Svizzera, una chiusura comunque di fondo rispetto alla questione sollevata dall’UDC. Epperò, seppure in modo pericoloso, imprudente e approssimativo, quest’ultimo evoca un principio ormai legittimo, quello della sovranità nazionale, sul quale la sinistra non può esimersi almeno dall’entrare in materia, se non vuole lasciare campo libero alle destre. In quest’ottica sento perciò il bisogno di denunciare le pesanti contraddizioni della modifica proposta, cercando però di non banalizzarne la portata.
L’iniziativa mira a consacrare il primato della Costituzione rispetto al diritto internazionale, fatte salve le sue disposizioni cogenti. Nei casi di conflitto, la Confederazione dovrebbe provvedere a rinegoziare il trattati litigioso o, se necessario, a denunciarlo. Alla prassi attuale, non sempre esauriente, ma volutamente pragmatica e flessibile, l’UDC intende sostituire uno schematico automatismo, volto a restringere il margine di manovra ora riconosciuto alle autorità federali. Giova infatti ricordare che, alla regola secondo cui la Svizzera ossequiare gli obblighi internazionali, il nostro prevede già alcune eccezioni. Secondo una costante giurisprudenza del TF, se il Parlamento adotta deliberatamente una legge contraria al diritto internazionale, sarà un tale atto ad avere la precedenza, a condizione di rispettare le garanzie della CEDU (sentenza Schubert e PKK). Un compromesso che, conciliando una preminenza del diritto internazionale con una necessaria sovranità nazionale, consente al nostro Paese di mantenere salde le sue importanti relazioni estere, senza per questo impedirgli di esercitare le sue prerogative politiche, in casi eccezionali anche contrastando gli accordi sottoscritti.

Con la sua campagna, l’UDC sembra dimenticare inoltre il carattere volontario del diritto internazionale, la cui validità dipende, prima ancora che dal suo rango, dall’intenzione politica di aderirvi. Non v’è alcun dubbio che i trattati, in quanto prodotto dei rapporti di forza tra gli Stati, possano assumere contenuti anche contestabili. Ben lungi dal poterlo negare, dobbiamo però respingere la tesi dell’imposizione coercitiva degli accordi internazionali, la cui procedura di approvazione, oltretutto, si accosta a quella delle stesse leggi federali, compresa dell’assoggettamento a referendum facoltativo. La drasticità dell’iniziativa andrebbe così a compromettere la stabilità delle nostre relazioni con gli altri paesi, verso i quali la Confederazione dovrebbe tenere invece un profilo negoziale affidabile. In questo senso, essa metterebbe a repentaglio anche una serie di trattati, andando incontro a imprevedibili ripercussioni sociali ed economiche: basti pensare alle numerose convenzioni emanate dall’Organizzazione internazionale del lavoro, ma anche da quelle stipulate con l’Organizzazione mondiale del commercio. A tale proposito bisogna chiarire che, in caso di accettazione della modifica costituzionale, non sussiste soltanto il rischio di dovere denunciare determinati accordi, ma anche quello di perdere le garanzie da essi sancite, le quali potrebbero venire meno in assenza di una giurisdizione internazionale.

Questo problema andrebbe a investire specialmente il sistema della CEDU, il quale prevede la possibilità di ricorrere alla Corte EDU, una volta esaurite le vie legali interne, in caso di violazione dei diritti umani. Non a caso, l’attuazione delle sue sentenze si vedrebbe chiaramente ostacolata da norme costituzionali contrarie alla CEDU, ma alle quali le autorità giudiziarie dovrebbero dare la precedenza. In presenza di un conflitto sistematico con la CEDU, il meccanismo dell’iniziativa avrebbe quale conseguenza inevitabile una denuncia del trattato in questione, ciò che sarebbe grave per diversi motivi. Seppure non entrando nel campo dei diritti sociali, la giurisprudenza della Corte ha permesso di risolvere molte controversie delicate, altrimenti lasciate a un giudizio definitivo del TF. Oltre a ciò, la stessa ha contribuito a influenzare positivamente il diritto svizzero, come nell’ambito della procedura amministrativa, della parità tra i sessi, delle espulsioni arbitrarie e delle libertà democratiche. La CEDU costituisce perciò un mezzo di protezione supplementare che, seppure limitato alle libertà individuali, molte delle quali sono state comunque rivendicate dallo stesso movimento operaio, assolve una funzione giuridica senza dubbio meritevole di essere salvaguardata.

Ciò vale a maggior ragione in Svizzera, dove non essendo previsto alcun controllo di costituzionalità della legislazione nazionale (art. 190 Cst.), la Corte EDU può considerarsi nei fatti l’ultimo argine al potere dell’Assemblea federale, escluso chiaramente il referendum. Una situazione già di per sé criticabile che, contestualmente a una denuncia della CEDU, non potrebbe che rendere ancora più pericolosa un’applicazione dell’iniziativa. A rischio vi sono infatti le fondamenta stesse di uno Stato di diritto, poiché serve a poco sbandierare i diritti fondamentali già sanciti dalla nostra Costituzione, quando ci si dimentica di precisare che il Parlamento si ritroverebbe nella condizione di poterli violare impunemente. Anche per questo andrebbe rilanciato un dibattito sulla necessità di instituire una Corte costituzionale, ciò che tuttavia, per affermare realmente il primato della Costituzione, l’UDC si guarda bene dal fare.
Senza volermi dilungare sul testo costituzionale, a sua volta non esente da contraddizioni interne, per quanto concerne ad esempio l’automatismo nella denuncia, la validità dei trattati assoggettati a referendum e il rango della legislazione federale, saranno pertanto queste le ragioni che, il prossimo 25 novembre, mi spingeranno a esprimere un chiaro NO all’iniziativa per l’autodeterminazione.

Edoardo Cappelletti, membro di Direzione del Partito Comunista, giurista

Articolo apparso su Ticinonews, 21 novembre 2018

Le due Sviz­ze­re

Le due Sviz­ze­re

C’è un li­bro che è ap­pe­na usci­to e nes­su­no se n’è ac­cor­to. Ha la co­per­ti­na di car­to­ne du­ro e una bel­la gra­fi­ca so­bria, ele­gan­te. Se lo apri­te, sul­le pri­me due pa­gi­ne tro­ve­re­te i ri­trat­ti dei tren­ta scrit­to­ri sviz­ze­ri che lo han­no scrit­to: ognu­no in­ter­pre­ta, a mo­do suo, uno de­gli ar­ti­co­li del­la “Di­chia­ra­zio­ne uni­ver­sa­le dei di­rit­ti uma­ni”. È un’ar­ma, que­sto li­bro, che spa­ra un bel no con­tro l’ini­zia­ti­va dell’Udc, del­la qua­le tan­to si par­la in que­sti gior­ni. Un li­bro che di­mo­stra co­me esi­sta­no due Sviz­ze­re. L’im­ma­gi­ne che emer­ge da que­sto “Men­schen­re­ch­te. Wei­ter­schrei­ben” (che si po­treb­be tra­dur­re con “Di­rit­ti uma­ni. Con­ti­nua­re a scri­ver­ne”) pub­bli­ca­to dal­la ca­sa edi­tri­ce Sa­lis di Zu­ri­go a cu­ra di Sve­n­ja Herr­mann e Ul­ri­ke Ul­ri­ch, è quel­la di un pae­se crea­ti­vo e cri­ti­co. Con­sa­pe­vo­le di sta­re nel cuo­re dell’Eu­ro­pa e pron­to a col­la­bo­ra­re. Un pae­se at­ten­to ai di­rit­ti uma­ni: che non han­no fron­tie­re. Un pae­se che ha fon­da­to la Cro­ce Ros­sa e ha ac­col­to Maz­zi­ni, un pae­se do­ve il co­man­dan­te del­la po­li­zia can­to­na­le di San Gal­lo Paul Grü­nin­ger ha sal­va­to cen­ti­na­ia di ebrei nel pe­rio­do 1938-1939, un pae­se co­rag­gio­so do­ve il Par­la­men­to sa an­che di­re di no ai de­ma­go­ghi. Que­sta Sviz­ze­ra si con­trap­po­ne al­la ter­ra dei sem­pre ob­be­dien­ti, di quel­li che igno­ra­no o di­men­ti­ca­no, di quel­li che col­ti­va­no la pau­ra e l’osti­li­tà, di quel­li che se la pren­do­no con i chie­ri­chet­ti con la pel­le scu­ra, di quel­li che pro­muo­vo­no i na­zi­sti, di quel­li che si chiu­do­no die­tro la sie­pe del­la lo­ro dif­fi­den­za a sven­to­la­re, do­po aver­la se­que­stra­ta, la ban­die­ra del­la pa­tria. E chi vo­le­va re­spin­ge­re gli ita­lia­ni cin­quant’an­ni fa? Li ri­cor­da­te? Proi­bi­to l’in­gres­so a ca­ni e ita­lia­ni, di­ce­va­no.

Og­gi, pro­muo­ven­do l’ini­zia­ti­va con­tro i giu­di­ci stra­nie­ri, vor­reb­be­ro osteg­gia­re, per fa­re un so­lo esem­pio, l’im­por­tan­te Cor­te eu­ro­pea dei di­rit­ti dell’uo­mo (ve­di il re­cen­te ca­so del­le fa­mi­glie di vit­ti­me dell’amian­to, che han­no ot­te­nu­to giu­sti­zia so­lo a Stra­sbur­go). Un’ini­zia­ti­va che, in no­me del­la pa­tria, vuo­le in­tac­ca­re la no­stra li­ber­tà: che vuo­le in­tac­ca­re, dun­que, l’an­ti­co zoc­co­lo di gra­ni­to del qua­le an­dia­mo fie­ri. Ci so­no due Sviz­ze­re, ve l’ho det­to. O for­se c’è una Sviz­ze­ra di­ver­sa per ognu­no di noi, che è fat­to a mo­do suo e non è di­spo­sto a se­gui­re le di­ret­ti­ve dei ca­po­rio­ni. La Sviz­ze­ra che mi pia­ce è que­sta qui: aper­ta al mon­do. Co­me vie­ne fuo­ri dal li­bro ci­ta­to so­pra. Li­bro col­let­ti­vo e plu­ri­lin­gue – con­tie­ne an­che quat­tro te­sti in ita­lia­no – che tor­na a par­la­re di di­rit­ti uma­ni, a set­tant’an­ni dal­la lo­ro pro­cla­ma­zio­ne: per­ché è ne­ces­sa­rio tor­na­re a par­lar­ne. Era il di­cem­bre 1948, quan­do l’As­sem­blea Ge­ne­ra­le del­le Na­zio­ni Uni­te pre­se quel­la ri­so­lu­zio­ne. Io ave­vo ot­to an­ni, gio­ca­vo igna­ro in un cor­ti­le a due pas­si dal­la re­te di con­fi­ne, ol­tre la qua­le si era con­su­ma­ta l’ul­ti­ma car­ne­fi­ci­na del se­co­lo, ma non ne sa­pe­vo qua­si nien­te. For­se av­ver­ti­vo per aria uno stra­no odo­re di bru­cia­to: ma mi era sta­to re­ga­la­to un pal­lo­ne di cuo­io e so­gna­vo di di­ven­ta­re il por­tie­re del­la squa­dra di via Co­ma­ci­ni. Non sa­pe­vo che sta­va per na­sce­re una gran­de spe­ran­za, la spe­ran­za di po­ter vi­ve­re in un pae­se ge­ne­ro­so, aper­to al mon­do, al­la so­li­da­rie­tà: la spe­ran­za di una Sviz­ze­ra in cui pos­sa­no ri­suo­na­re chia­ra­men­te le pa­ro­le del pri­mo ar­ti­co­lo di quel­la “Di­chia­ra­zio­ne” – un li­bric­ci­no che ci sta co­mo­da­men­te nel­la ta­sca dei pan­ta­lo­ni o in una bor­set­ta da don­na: “Tut­ti gli es­se­ri uma­ni na­sco­no li­be­ri ed ugua­li in di­gni­tà e di­rit­ti. Es­si so­no do­ta­ti di ra­gio­ne e di co­scien­za e de­vo­no agi­re gli uni ver­so gli al­tri in spi­ri­to di fra­tel­lan­za”. Non è tut­ta qui, la de­mo­cra­zia?

Al­ber­to Nes­si, scrit­to­re

Articolo apparso su LaRegione, 21 novembre 2018

Svizzera più debole con l’autodeterminazione

Svizzera più debole con l’autodeterminazione

Nel nostro Paese non tutto è perfetto. È però incontestabile che la popolazione svizzera dispone di un’assistenza sanitaria di altissimo livello, di un sistema di formazione considerato esemplare dai nostri vicini, di una gestione performante delle sue risorse e di infrastrutture di qualità. Molti dimenticano che questi vantaggi sono spesso il frutto della ricerca di punta condotta in Svizzera.

Inoltre, i numerosi poli d’innovazione con sede in Svizzera creano posti di lavoro locali e competitivi. Da recenti studi (Ufficio federale di statistica, 2015) emerge che la creazione di posti di lavoro e di imprese è concentrata intorno ai principali poli di ricerca, in particolare nelle regioni del Lemano, di Zurigo e Basilea e in Ticino, che – un dato spesso dimenticato – accoglie dei centri di ricerca di alto livello.

La piazza svizzera della formazione e della ricerca gode di prestigio internazionale. Da diversi anni la Svizzera si colloca regolarmente nella top 5 mondiale in numerosi campi scientifici (SEFRI, 2016): un posto invidiabile se si considera lo stretto legame che esiste tra la ricerca di alta qualità, l’ecosistema dell’innovazione, la ricchezza in senso lato e il benessere generale.

Questa eccellenza non è dovuta unicamente allo straordinario DNA degli scienziati svizzeri, bensì è da attribuire, come ovunque, alla nostra capacità di attirare i cervelli migliori. La scienza non conosce frontiere, oggi più che mai.

Per questi motivi, un voto a favore dell’isolamento e del ripiegamento in sé stesso sarebbe pericoloso per la piazza svizzera della formazione, della ricerca e dell’innovazione. Di recente abbiamo fatto le spese dell’impatto nefasto di tali scelte. Conseguenza diretta del sì all’iniziativa popolare «Contro l’immigrazione di massa» del 9 febbraio 2014, l’esclusione dai programmi quadro di ricerca europei tra il 2014 e il 2016 ha privato i nostri ricercatori dell’accesso ai competitivi e prestigiosi fondi di ricerca ERC e ha provocato un netto calo dei finanziamenti europei. Queste perdite ammontano fino a oggi a 1,4 miliardi di franchi e non potranno più essere interamente recuperate. L’esclusione ha inoltre comportato una diminuzione dei coordinamenti dei progetti (–30%) e delle partecipazioni ai progetti europei (–25%) (SEFRI, 2018).

Ma il denaro non è tutto. Essere esclusi da questi programmi significa anche privare i nostri studenti e giovani ricercatori – i talenti di domani – dell’accesso alle reti europee che permettono loro di sviluppare le proprie conoscenze e tessere contatti essenziali per la loro futura carriera.

Se il contributo della Svizzera a programmi di ricerca e la sua forte presenza nei comitati scientifici internazionali sono ampiamente riconosciuti tra gli ambienti scientifici, lo stesso vale per i nostri esperti, giudici, professori, che si impegnano a pieno titolo in numerosi organismi internazionali: all’ONU, alla Corte penale internazionale, al Consiglio d’Europa. L’iniziativa per l’autodeterminazione rappresenta una vera minaccia per la Svizzera, un Paese che può esercitare un influsso sulle decisioni internazionali solo attraverso le sue reti, le amicizie che ha tessuto ovunque nel mondo e la partecipazione alla giurisdizione internazionale. Solo apportando le nostre conoscenze e il nostro know-how possiamo contribuire a definire le condizioni quadro che determinano il nostro quotidiano. Non lasciamo agli altri la responsabilità di plasmare il nostro futuro.

Clima, migrazioni, pandemie le grandi sfide alle quali siamo confrontati possono essere risolte solo collettivamente. L’isolamento dà solo un’illusione di sicurezza. Un’illusione pericolosa. Senza una spiccata vocazione internazionale, la Svizzera finirà per indebolirsi. L’A.G.F.A si impegna per tutti questi motivi invita a respingere l’iniziativa per l’autodeterminazione.

Jean-Marc Triscone, presidente A.G.F.A (Association de Genève des Fondations Académiques che raggruppa le fondazioni romande a sostegno della formazione e della ricerca nelle scuole universitarie)

Opinione apparsa sul Corriere del Ticino, 20 novembre 2018

«Non apriamo le porte all’incertezza»

«Non apriamo le porte all’incertezza»

L’intervista a Ignazio Cassis, consigliere federale

Il «ministro» ticinese sugli scenari nel caso di un sì all’iniziativa per l’autodeterminazione.

 

Il titolo, indubbiamente, è accattivante. Ma la lettura che va fatta dell’iniziativa per l’autodeterminazione (o «Il diritto svizzero anziché giudici stranieri») deve andare oltre la semplice intestazione. Il motivo? La portata della posta in gioco. Parola del consigliere federale Ignazio Cassis, che a margine del congresso cantonale del PLR (cfr. pagina 9) spiega le ragioni della lotta contro il testo in votazione domenica prossima. E dipinge gli scenari che potenzialmente s’instaurerebbero in caso di un sì. Scenari riassumibili con una sola parola: incertezza.

ANNA RIVA

Signor consigliere federale, Costituzione svizzera versus diritto internazionale. Non è ovvio che la prima debba prevalere sul secondo?

«Lo è e infatti è anche così. Quando noi concludiamo dei contratti internazionali importanti, pensiamo agli Accordi bilaterali con l’Unione europea o agli accordi multilaterali con l’ONU o con l’Organizzazione mondiale del commercio, necessariamente ci vuole l’approvazione del Parlamento e vi è sempre il referendum facoltativo sulla legge che applica tali contratti. Addirittura, vedendo la crescita del numero di questi atti negli ultimi anni, si è deciso che quelli giudicati di rango costituzionale vanno sottoposti al referendum obbligatorio, quindi diventano de facto delle decisioni del popolo di livello costituzionale. Il mondo è cambiato, ma è vero che questo modo di procedere non era ancora in vigore venti, trenta, quarant’anni fa. I trattati internazionali all’epoca non sempre seguivano questa via legislativa interna. Ed è qui il problema. Se noi approvassimo adesso questa modifica costituzionale creeremmo la base per rimettere in discussione i trattati internazionali decisi anni addietro, quando ancora non c’era questo meccanismo di rango costituzionale. E ciò crea una grandissima insicurezza: primo perché sono importanti questi trattati decisi in passato, che esplicano la loro forza normativa ogni giorno, anche se magari non ne parliamo sempre; secondo perché creeremmo una grandissima insicurezza nei nostri rapporti internazionali e quindi a scapito della nostra piazza economica».

È curioso che lei parli di incertezza giuridica quando i promotori dicono che con quest’iniziativa è proprio la certezza giuridica che verrebbe infine a crearsi.

«Se noi guardiamo da oggi in avanti, quello che i promotori propongono è già de facto realtà. È vero, non è scritto così come da loro richiesto, ma nei fatti è così. E quindi in questo senso verrebbero semplicemente a confermare quanto già accade: la realtà è quella, creiamo la regola. E fin qui penso che non ci sarebbero grandi problemi. Anche altri Paesi hanno queste disposizioni, dove affermano un fatto ovvio: nel nostro territorio decidiamo autonomamente cosa vogliamo fare. Ma ciò è scontato. Non bisogna pensare che non sia già così. Oggi non stringeremmo nessun trattato internazionale senza che questo sia prima approvato dalla Svizzera. Il vero problema è che l’iniziativa si propone di sanare situazioni del passato che approvando questa proposta dovrebbero d’un colpo essere ridiscusse: si giungerebbe a nuovi negoziati, a disdette. Questo creerebbe una situazione difficile».

Si tratta di un esperimento inedito. È davvero immaginabile la portata di tale test?

«È difficile immaginarla. Nessuno sa esattamente che cosa succederebbe e già questo è un risultato preoccupante. Avere una norma costituzionale che apre il vaso di Pandora: perché dobbiamo avere un comportamento autolesionista? Per risolvere quale problema? Non c’è un problema da risolvere. Quindi qualsiasi soluzione non può che creare effetti collaterali indesiderati. Questa incertezza del diritto nuocerebbe alla piazza economica, quindi alla nostra prosperità e ai nostri rapporti internazionali. Il santo non vale la candela».

La consigliera federale Simonetta Sommaruga ha detto che la vaghezza con cui è stata formulata l’iniziativa può fare in modo che qualsiasi accordo internazionale venga potenzialmente toccato, come ad esempio la Convenzione europea dei diritti dell’uomo e l’Accordo di libero scambio.

«Sommaruga ha assolutamente ragione: è proprio questo il problema. Non c’è scritto che cosa esattamente bisognerebbe toccare e gli iniziativisti un giorno sì e uno no cambiano idea. Prendiamo la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che all’inizio sembrava essere proprio quella contro cui era indirizzata l’iniziativa. Adesso i promotori hanno fatto marcia indietro, hanno detto: “No no, quella non vogliamo toccarla”. Ma ciò testimonia bene una cosa: l’incertezza. L’incertezza del diritto è il veleno numero uno per la nostra sicurezza e prosperità».

La fuga delle aziende è tra i possibili scenari, immagino.

«Sì. Chi investe? Lei, se ha un milione di franchi da investire, vuole farlo dove è sicura che valgono certe regole che restano valide per un po’ di tempo oppure preferisce farlo in un posto dove domani uno cambia la legge e lei perde il suo milione? Nessuno investirebbe più. E se nessuno investe, non abbiamo sviluppo economico e non siamo più il numero uno dell’innovazione, con tutto ciò che ne consegue in termini di prosperità. Salari, redditi e pressione fiscale: tutto questo è legato a quanta ricchezza riusciamo a produrre».

L’iniziativa si inserisce in un contesto piuttosto difficile, caratterizzato da relazioni con l’Unione europea non sempre semplici. Magari è un po’ scabroso trattare questa faccenda adesso.

«È così. È vero che non c’è un legame giuridico diretto, perché i rapporti internazionali che oggi abbiamo con l’Unione europea sono stati accolti in votazione popolare più volte, quindi il popolo ha detto chiaramente che tipo di politica europea vuole sinora. L’unica volta in cui ci si è trovati in una situazione poco chiara è stato in seguito all’iniziativa contro l’immigrazione di massa. Il Parlamento ha risolto il problema in qualche modo, come ha potuto e alla fine contro quella soluzione nessuno ha lanciato un referendum, quindi vuol dire che tutto sommato andava bene così. Un sì il 25 novembre modificherebbe i nostri rapporti con l’Unione europea, creando una percezione di incertezza sull’affidabilità del partner. Quanto sarebbe affidabile il partner svizzero che d’un colpo crea una norma costituzionale in base alla quale potrebbe mettere in discussione la sua appartenenza al Consiglio d’Europa? Poi bisognerà vedere se questo succederà o no. Ma, come detto, provocheremmo l’apertura del vaso di Pandora».

Chi è contrario all’accordo quadro istituzionale lamenta un atteggiamento di sottomissione, che verrebbe consolidato con un’eventuale firma. Come risponde?

«L’accordo quadro istituzionale è un accordo procedurale che aiuta a regolare l’accesso al mercato dell’Unione europea. È una tappa ulteriore sulla via bilaterale. Ed è una decisione che può essere presa dal Parlamento e dal popolo indipendentemente dall’iniziativa per l’autodeterminazione. Ma ancora una volta: se l’iniziativa sarà approvata è molto probabile che ciò avrà delle conseguenze negative anche sulla disponibilità dell’Unione europea a trovare delle vie giuste ed equilibrate con la Svizzera, perché d’un colpo avrà la sensazione che non siamo più un partner affidabile».

È recente la notizia relativa ad una decisione della Corte di giustizia dell’UE, che ha giudicato illegale una disposizione austriaca contro il dumping salariale. In Svizzera i sindacati paventano un indebolimento della tutela dei salariati. La sentenza della Corte può essere intesa come una conferma di questi timori?

«No. La lettura che ne è stata fatta è sbagliata. In realtà questa sentenza è una bella cosa, perché dimostra che non si può mantenere opacità sulla questione: bisogna fare chiarezza. E con cosa facciamo chiarezza? Con l’accordo quadro istituzionale. Secondo me è la miglior prova che la volontà di creare certezza giuridica impedirà ai tribunali di dover decidere essi stessi. Ed è la prova migliore che potesse arrivare cinque minuti prima di mezzanotte, dato che nelle prossime settimane dovremo arrivare ad una decisione. In secondo luogo, l’Austria è un membro del club, noi no. E questo cambia completamente le cose, perché i rapporti tra noi e il club – l’Unione europea – sono regolati appunto da norme diverse da quelle che disciplinano l’appartenenza di un membro dell’UE».

Due interpretazioni antitetiche, dunque.

«Per me in sostanza è la prova che quando non c’è chiarezza nei rapporti giuridici i tribunali devono in qualche modo tranciare. E questo avviene anche all’interno dell’UE».

In Ticino, secondo alcuni sondaggi, potrebbe emergere un certo sostegno a favore dell’iniziativa per l’autodeterminazione. Come legge questo dato?

«Lo leggo alla luce della percezione di perdere il controllo di casa propria. È una cosa molto profonda, molto viscerale e che ci accomuna tutti. E, a prima vista, è anche una giusta reazione. Bisogna però darsi la pena di fare un passo ulteriore e di dire: va bene, ritenuto che il principio è giusto, quando voto sì che cosa faccio esattamente? Faccio cambiare la Costituzione inserendo delle norme confuse che creano l’incertezza di cui parlavo prima. Il sì non è al titolo dell’iniziativa, ma agli articoli concreti che entrerebbero nella Costituzione. E questi, mi spiace, non sono né necessari né adeguati, ma creano soltanto effetti negativi. Ribadisco che già oggi, indipendentemente da quest’iniziativa, la Svizzera non accoglie nessun nuovo trattato di diritto internazionale senza che al popolo venga data la possibilità di esprimersi».

Intervista apparsa sul Corriere del Ticino, 19 novembre 2018
Tutto ciò che dobbiamo alla Corte di Strasburgo

Tutto ciò che dobbiamo alla Corte di Strasburgo

Gli autori della iniziativa cosiddetta di «autodeterminazione» vogliono che la Svizzera denunci la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU). Infatti considerano questa convenzione come un’opera del diavolo. Il consigliere nazionale UDC Alfred Heer ha insultato la Corte di Strasburgo come «un ascesso purulento». Non si sono nemmeno dati la pena di procedere alla minima analisi delle numerose sentenze che riguardano la Svizzera, sentenze alle quali del resto hanno partecipato dei giudici svizzeri, ciò che gli autori di questa iniziativa UDC cercano di nascondere quando parlano di «giudici stranieri«. Basta ricordarsi alcuni esempi che riguardano la presunzione di innocenza, il diritto a giudici indipendenti, il diritto di informazione delle persone, il controllo sul carcere preventivo, e la giustizia per le vittime dell’amianto.

Ancora fino agli anni ’80, una persona accusata ingiustamente e che fosse stata successivamente assolta da un tribunale svizzero, ciò malgrado poteva vedersi infliggere le tasse di giustizia, nel caso in cui un giudice ritenesse che un suo «comportamento negligente» avesse giustificato l’inchiesta contro questa stessa persona. A giusto titolo la Corte di Strasburgo aveva annullato questa prassi, ritenendo che si trattasse di una condanna implicita, e dunque di una violazione del principio di innocenza (caso Minelli).

Sempre ancora negli anni ’80, certe autorità amministrative svizzere funzionavano come tribunali, sia in fase di inchiesta che in fase di sentenza. Sia la dottrina giuridica che gli avvocati non smettevano di criticare questa prassi. Ma fu necessario l’intervento della Corte di Strasburgo affinché la Svizzera si facesse dire che questa prassi giudiziaria era contraria al principio dell’indipendenza dei giudici (caso Belilos). Già allora il consigliere agli Stati Danioth aveva preteso, fortunatamente invano, nientemeno che la Svizzera denunciasse la Convenzione per la protezione dei diritti individuali e che, quindi, uscisse dalla Corte di Strasburgo. Oggi non è nemmeno immaginabile un ritorno all’indietro verso questa prassi dell’epoca.

Ancora fino all’anno 2000, i tribunali svizzeri non comunicavano, alle persone coinvolte in un procedimento giudiziario, le motivazioni dell’istanza giudiziaria precedente e ciò addirittura anche quando la motivazione dettagliata della sentenza oggetto di un ricorso non figurasse per la prima volta in queste determinazioni. Nel 2002 la Corte di Strasburgo mise fine a questa prassi (caso Ziegler). Oggi non possiamo nemmeno immaginare che le motivazioni decisive di una istanza giudiziaria inferiore non vengano comunicate automaticamente a coloro che ricorrono contro questa sentenza.

Sempre fino alla fine degli anni ’80, i giudici istruttori potevano ordinare la carcerazione preventiva anche nel caso in cui fossero essi stessi competenti per condurre l’istruttoria penale. Nel 1990 la Corte di Strasburgo decise che in questo caso il giudice istruttore non poteva essere considerato come «indipendente» quando decideva sulla privazione della libertà di una persona accusata. Questa sentenza condusse finalmente la Svizzera ad istituire una giurisdizione indipendente incaricata di verificare la legalità della carcerazione preventiva (caso Huber).

Fino a poco tempo fa, le vittime dell’amianto non potevano essere indennizzate che nel caso in cui la malattia, ossia il tumore, si fosse manifestata prima che fosse decorso il termine di prescrizione di dieci anni a partire dalla fine della esposizione della persona a questa sostanza nociva. Il Parlamento svizzero conosceva questo problema ma non ne fece mai nulla. Nel 2004 un operaio esposto all’amianto fu colpito dal cancro della pleura, che lo condusse alla morte. Tutte le istanze giudiziarie svizzere avevano respinto le domande di indennizzo presentate dalla sua famiglia, per il fatto che la prescrizione era intervenuta già nel 1988. Nel 2014 la Corte di Strasburgo giudicò che i termini di prescrizione previsti dal diritto svizzero non dovevano fare ostacolo ad un indennizzo nel caso in cui la malattia fosse sopraggiunta dopo un periodo di latenza di parecchi decenni. Infatti ciò avrebbe costituito una violazione del diritto delle vittime ad un processo giusto (caso Moor). Grazie a questa giurisprudenza della Corte di Strasburgo si poté quindi correggere una prassi giudiziaria che era inammissibile.

Noi dobbiamo proprio alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti individuali e alla Corte di Strasburgo se i diritti dei cittadini e delle cittadine e le loro libertà sono state rafforzate. Conclusione: votiamo no contro l’iniziativa cosiddetta di «autodeterminazione».

Niccolò Raselli, giudice del Tribunale federale svizzero in pensione

Opinione apparsa sul Corriere del Ticino, 19 novembre 2018

“Noi, una noce in mezzo all’Europa che prospera per gli accordi internazionali”

“Noi, una noce in mezzo all’Europa che prospera per gli accordi internazionali”

Secondo Rocco Cattaneo, Consigliere Nazionale PLR, l’iniziativa metterebbe a rischio molti posti di lavoro perché le aziende sarebbero scoraggiate nel valutare futuri progetti. “NO a un isolamento del nostro Paese dal resto del mondo, NO a una chiusura a riccio. Con questo slogan combatto la pericolosa iniziativa per l’autodeterminazione, che vi chiedo di respingere il prossimo 25 novembre. I sostenitori dell’iniziativa invocano con grandi parole la supremazia della nostra Costituzione e la necessità di ridare al Paese autodeterminazione. Ma tutto questo è illusorio perché noi siamo sempre stati liberi di decidere quali accordi ratificare e quali no!”

Leggi l’articolo di Rocco Cattaneo su Ticinolibero

 

Quali difese in caso di crisi internazionale?

Quali difese in caso di crisi internazionale?

È un tema certamente difficile, anche per un giurista. Non è di per sé un esercizio facile rilevare potenziali divergenze, a livello teorico, fra il diritto internazionale e la Costituzione federale. Purtroppo, l’iniziativa non dice chi sarà a dover scegliere di volta in volta fra il diritto svizzero e il diritto internazionale: si arrischia la paralisi giudiziaria proprio su questioni fondamentali, in un periodo in cui è necessario decidere in fretta. Ritengo in ogni caso legittimo fare un pensiero su quella che potrebbe essere la posizione della Svizzera a livello internazionale qualora l’iniziativa venisse effettivamente accolta. La domanda da porsi dovrebbe essere quella a sapere se la disdetta di “n” accordi può scatenare una levata di scudi internazionale tanto da mettere il nostro Paese in una situazione di crisi. Nell’ipotesi affermativa, la Svizzera sarebbe in grado di far fronte a tale pressione?
La nostra storia più recente ha dimostrato, purtroppo, che le nostre armi sono abbastanza spuntate. Due crisi su tutte hanno dimostrato i limiti delle nostre istituzioni. La prima è partita nel 2009 dagli Stati Uniti, dopo 10 anni, ha inesorabilmente stravolto il settore finanziario con l’affossamento del segreto bancario. È ancora ben vivo il ricordo di un Consiglio federale praticamente impossibilitato a parare i continui attacchi provenienti da gran parte dei paesi occidentali (oltre a Usa, Germania, Francia, e G20). Non vennero in soccorso della Svizzera nemmeno quei paesi in Europa che condividevano un sistema analogo al nostro (Gran Bretagna, Lussemburgo, Austria). Nessuna solidarietà, e tanta critica nei confronti del nostro Paese. Il secondo esempio, anch’esso rivelatore dei limiti delle nostre istituzioni in caso di crisi, è quello del triste sequestro dei due cittadini svizzeri che venne ordinato da quel dittatore libico giusto per un gusto di rivalsa a fronte di un torto familiare subito. In quelle fasi, vi furono addirittura paesi europei che redarguirono la Svizzera per il fatto di aver bloccato i visti Schengen ad alcuni personaggi vicini all’entourage di quel tiranno. Poca solidarietà, e cinica reprimenda nei confronti della Svizzera.
Il nostro peso specifico a livello internazionale, come si è visto, rimane limitato. Mi si dirà che si è arrivati al catastrofismo, forse. Tuttavia, se è vero che fra i vari obiettivi dell’iniziativa vi è quello di denunciare la Cedu, temo che tale atto possa essere interpretato quale affronto. Un potenziale fattore scatenante di un nuovo attacco contro la Svizzera (magari in una forma meno funesta), ma pur sempre un attacco di chi intende danneggiare gli interessi della Svizzera (e si è visto che nei momenti di maggiore difficoltà nessuno ha manifestato amicizia nei nostri confronti, anzi). In altri termini, questa iniziativa per l’autodeterminazione, se accolta, potrebbe tradursi in un atto di autoisolamento controproducente.
Un ultimo appunto: se la Svizzera è in grado di vantare un’economia con valori assoluti e relativi a dir poco straordinaria (Pil a quota 670 miliardi, reddito pro capite fra i più alti al mondo, disoccupazione al di sotto del 3%, massimi livelli di competitività, sistema sanitario ineccepibile, ottime infrastrutture ingegneristiche, e via dicendo) è anche grazie (e non malgrado) all’abilità di chi, nei decenni precedenti, è stato in grado di concludere centinaia di accordi commerciali a tutela dell’esclusivo interesse della Svizzera. Pensiamoci, il diritto internazionale fa prosperare la Svizzera, non la isola e non la danneggia.

Ergin Cimen

Articolo apparso su laRegione, 16 novembre  2018

Un’iniziativa subdola piena di contraddizioni

Un’iniziativa subdola piena di contraddizioni

Quel color arancio pallido. Quella giovane donna seria, priva di trucco, di gioielli, ma con lo sguardo intelligente che dice al passante: ho riflettuto a lungo. Sì, è la sua risposta. Sì all’iniziativa per la democrazia diretta. Sì all’autodeterminazione. Manifesti e linguaggio nuovi, quelli dell’Unione democratica di centro (UDC). Sorprendenti. Allettanti, seducenti, nella loro semplicità. Privi dell’aggressività, delle provocazioni, che hanno caratterizzato campagne precedenti. Gli autori hanno puntato sullo charme della sobrietà nel tentativo di convincere anche chi è lontano dai precetti dell’UDC e soprattutto chi non ha preso la briga di ben studiare la proposta. Un’offerta subdola, intrisa di incertezze, di contraddizioni che ricordano la spugna più che la pergamena.

Attacco frontale ai diritti umani

Nessuno può dire con esattezza cosa accadrebbe se l’iniziativa fosse approvata. Una cosa è certa: la sola possibilità che la Svizzera sia costretta a lasciare la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), è un argomento valido per respingerla. Con convinzione. Poiché questo trattato costituisce una polizza assicurativa contro l’arbitrio. Poiché senza di esso la popolazione, cittadine e cittadini tutti, sarebbe privata della possibilità di difendersi contro abusi di potere da parte di Governo e di Parlamento. Ma che stai scrivendo? Già oggi il Parlamento può, se lo volesse, accogliere una legge non rispettosa dei diritti umani. E la Costituzione? Appunto, è quanto l’UDC non manca di ricordare a ogni occasione. La Costituzione è tagliata fuori siccome per il Tribunale federale, ultima istanza del nostro sistema giuridico, le leggi federali sono determinanti e non la Carta fondamentale. In altre parole, esso non pronuncia le sentenze sulla base della Costituzione bensì delle leggi discusse e decise a Berna. Per questo i giuristi parlano della mancanza di una giurisdizione (competenza) costituzionale. La protezione contro l’arbitrio è apparsa nel nostro sistema giuridico soltanto con l’adesione alla Convezione europea dei diritti dell’uomo, 44 anni fa. Da quel fausto giorno, ogni cittadina, ogni cittadino può difendersi qualora una norma violasse i suoi diritti umani. Inoltrando ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo (dove siede anche un giudice svizzero), che non di rado corregge verdetti sbagliati della giustizia nazionale. Un esempio irrinunciabile di autodeterminazione.

L’Unione europea non c’entra

Un’offerta subdola, intrisa di incertezze, di contraddizioni. Pure di menzogne. Secondo i sostenitori dell’iniziativa ogni decisione di Strasburgo ci avvicinerebbe pericolosamente a Bruxelles, dunque al potere smisurato dell’Unione europea (qualcuno ha avuto la sfrontatezza di pronunciare il sostantivo dittatura), da tempo la madre di (quasi) tutte le minacce. La confusione tra la Convenzione europea dei diritti dell’uomo e l’Unione europea è coltivata volutamente, con sfacciataggine, con cinismo, per seminare dubbi, per sviare l’attenzione, per indirizzare verso il sì. Solo che, particolare non trascurabile, si tratta di due realtà completamente diverse. La Convenzione e la Corte di Strasburgo sono un’emanazione del Consiglio d’Europa che raggruppa 47 Stati, del nostro continente e dell’Asia centrale. L’Unione europea non ha nulla, ma proprio nulla da dire in merito a quanto si decide a Strasburgo.

I regimi nazional-sovranisti

Non è insignificante ricordare che il Consiglio d’Europa non è soltanto Convenzione e Corte dei diritti dell’uomo. Esso ha prodotto ben 221 accordi, che il nostro Paese ha ratificato in gran parte, concernenti, tra l’altro: la lotta contro la tratta degli esseri umani, uno scudo contro il terrorismo, il contrasto del doping, la protezione dell’ambiente, quella delle minoranze nazionali.

Al di fuori di questa meritevole organizzazione – non si tratta di fantascienza siccome ciò potrebbe avvenire a lunga scadenza – la Confederazione si troverebbe storicamente in ottima compagnia: la Bielorussia del dittatore Lucascenko, che continua ad applicare la pena di morte, la Grecia, l’unico Stato ad aver denunciato la Convenzione al tempo dei peggiori anni della dittatura dei colonnelli, la Turchia, che ha annunciato la sospensione del trattato a seguito dell’istaurazione dello stato d’emergenza dopo il tentativo di colpo di mano di due anni fa, la Russia, che nel 2015 ha deciso di non applicare più le decisioni della Corte di Strasburgo quando queste sono incompatibili con la sua Costituzione (il nostro diritto prima di quello internazionale…).

Protezione delle minoranze

L’approvazione dell’iniziativa potrebbe sfociare un giorno (chi possiede la boccia di cristallo dell’indovino?) anche in uno smantellamento del plurilinguismo e del multiculturalismo, uno dei valori fondanti del nostro meraviglioso Paese, il cui sistema politico, da tenere stretto, poggia su protezione delle minoranze, bicameralismo parlamentare, federalismo, doppia maggioranza popolo-cantoni in occasione di certe votazioni popolari. Senza questa tutela e altre, come il diritto internazionale imperativo (la totalità delle norme di questa natura**), si potrebbe immaginare un’iniziativa che chieda il divieto dell’insegnamento dell’italiano e del francese, facendo del tedesco l’unica lingua ufficiale del Paese. Se tutti i votanti svizzero-tedeschi – la maggioranza – dovessero schierarsi a favore della proposta, le minoranze francofona e italofona non potrebbero più rivolgersi alla Corte di Strasburgo per far valere i propri diritti.

Garanzia per la sovranità

Il diritto internazionale non è né «straniero» né quello dei più forti, come suggeriscono i promotori dell’iniziativa. Gli accordi di questa natura sono voluti dal Governo e ratificati dal Parlamento, quindi dai rappresentanti del popolo. È bene ricordare che contro decisioni parlamentari contestate è sempre possibile imbracciare l’arma del referendum, uno dei capisaldi della nostra ben funzionante democrazia diretta. Questi trattati, oltre 4 mila, costituiscono uno scudo a difesa degli interessi vitali del Paese, una protezione contro il «diritto dei più forti». Non il contrario! Un Paese piccolo come il nostro ha una sola scelta tra il potere del diritto o il dominio del potere.

**… Secondo l’articolo 53 della Convenzione di Vienna del 1969 sul diritto degli accordi, si tratta delle «norme accettate e riconosciute dalla comunità internazionale degli Stati nel suo insieme in quanto norme alle quali non è permessa nessuna deroga (…)».

Marco Cameroni, già console generale

Opinione apparsa sul Corriere del Ticino, 16 novembre 2018

Ricerca, formazione e innovazione a rischio

Ricerca, formazione e innovazione a rischio

Senza una spiccata vocazione internazionale, la Svizzera è destinata a indebolirsi. Questa l’opinione delle Fondazioni accademiche romande dell’Association de Genève des Fondations Academiques (AGFA), che invitano a respingere l’iniziativa per l’autodeterminazione. Un eventuale sì il 25 novembre pregiudicherebbe la posizione leader della Svizzera nel campo della ricerca, della formazione e dell’innovazione, compromettendo la nostra rinomata piazza accademica, servizi sanitari di alta qualità e mettendo a rischio l’offerta di posti di lavoro altamente competitivi. La Svizzera non solo perderebbe la sua influenza, ma verrebbe marginalizzata e indebolita, lasciando agli altri la responsabilità di plasmare il suo futuro.

Leggi la presa di posizione dell’AGFA

 

Autodeterminazione: verso la crisi dello Stato di diritto?

Autodeterminazione: verso la crisi dello Stato di diritto?

Un po’ di storia, per cominciare. Settanta anni fa era stata proclamata la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, promossa dalle Nazioni Unite a ridosso della Seconda guerra mondiale allo scopo di proteggere i diritti fondamentali delle persone dei Paesi che l’avevano sottoscritta: all’epoca era ancora vivida la memoria della violenza scatenata dagli Stati totalitari in nome di ideologie illiberali contro i propri stessi cittadini. L’anno seguente nel Vecchio Continente aveva preso forma l’idea di dar vita a una giustizia superiore agli Stati per scongiurare un ritorno al passato. Era nato il Consiglio d’Europa e in seguito aveva preso forma la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, il primo tribunale sovranazionale della storia a garantire il diritto di ricorso ai cittadini che non si sentivano protetti dalla giustizia esercitata nel proprio Paese. Anche la Svizzera nel 1963 ha aderito al Consiglio d’Europa e nel 1974 ha potuto ratificare la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu), una volta riconosciuti i diritti politici alle donne. Da allora la Confederazione ha compiuto progressi sul piano giuridico e i cittadini hanno ottenuto una protezione maggiore dei diritti: basti ricordare che grazie alle pressioni della Cedu nel 1981 venne finalmente abolito l’internamento amministrativo cui erano state sottoposte decine di migliaia di bambini e di giovani donne a partire dagli anni Trenta. La posta in gioco, oggi. Nel mirino dell’iniziativa c’è l’operato del Tribunale federale che ha il mandato di risolvere i conflitti tra diritto costituzionale svizzero e diritto internazionale. Secondo i giovani giuristi ticinesi riuniti nel Comitato di Berna “l’Udc vuole ora togliere questa libertà ai giudici svizzeri”, una prerogativa loro attribuita dalla Legge federale sul Tribunale federale del 2005 nello spirito di adeguare le sentenze agli standard della Cedu. L’iniziativa muove un attacco senza precedenti all’indipendenza del Tribunale federale per spalancare un varco a iniziative popolari lesive delle libertà e dei diritti fondamentali. Sono a rischio di denuncia la Cedu e altri trattati internazionali come la Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna, la Convenzione sui diritti del fanciullo, lo Statuto di Roma della Corte penale internazionale, l’adesione all’Unesco e le convenzioni emanate dall’Organizzazione internazionale del lavoro. I giudici svizzeri non potranno più difendere i cittadini del nostro Paese richiamandosi ad essi e alla giurisprudenza che si basa su questi trattati. Proclamare oggi il primato del diritto costituzionale in un Paese, il nostro, sprovvisto di una Corte costituzionale, è pericoloso, oltreché anacronistico. Basti ricordare che in passato un solo Stato ha denunciato la Cedu: la Grecia, ai tempi della dittatura dei colonnelli. È più saggio preservare lo Stato di diritto esprimendo un chiaro No all’iniziativa.

Francesca Tognina Moretti, Associazione Uniti dal Diritto

Articolo apparso su laRegione, 15 novembre 2018