Quel color arancio pallido. Quella giovane donna seria, priva di trucco, di gioielli, ma con lo sguardo intelligente che dice al passante: ho riflettuto a lungo. Sì, è la sua risposta. Sì all’iniziativa per la democrazia diretta. Sì all’autodeterminazione. Manifesti e linguaggio nuovi, quelli dell’Unione democratica di centro (UDC). Sorprendenti. Allettanti, seducenti, nella loro semplicità. Privi dell’aggressività, delle provocazioni, che hanno caratterizzato campagne precedenti. Gli autori hanno puntato sullo charme della sobrietà nel tentativo di convincere anche chi è lontano dai precetti dell’UDC e soprattutto chi non ha preso la briga di ben studiare la proposta. Un’offerta subdola, intrisa di incertezze, di contraddizioni che ricordano la spugna più che la pergamena.
Attacco frontale ai diritti umani
Nessuno può dire con esattezza cosa accadrebbe se l’iniziativa fosse approvata. Una cosa è certa: la sola possibilità che la Svizzera sia costretta a lasciare la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), è un argomento valido per respingerla. Con convinzione. Poiché questo trattato costituisce una polizza assicurativa contro l’arbitrio. Poiché senza di esso la popolazione, cittadine e cittadini tutti, sarebbe privata della possibilità di difendersi contro abusi di potere da parte di Governo e di Parlamento. Ma che stai scrivendo? Già oggi il Parlamento può, se lo volesse, accogliere una legge non rispettosa dei diritti umani. E la Costituzione? Appunto, è quanto l’UDC non manca di ricordare a ogni occasione. La Costituzione è tagliata fuori siccome per il Tribunale federale, ultima istanza del nostro sistema giuridico, le leggi federali sono determinanti e non la Carta fondamentale. In altre parole, esso non pronuncia le sentenze sulla base della Costituzione bensì delle leggi discusse e decise a Berna. Per questo i giuristi parlano della mancanza di una giurisdizione (competenza) costituzionale. La protezione contro l’arbitrio è apparsa nel nostro sistema giuridico soltanto con l’adesione alla Convezione europea dei diritti dell’uomo, 44 anni fa. Da quel fausto giorno, ogni cittadina, ogni cittadino può difendersi qualora una norma violasse i suoi diritti umani. Inoltrando ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo (dove siede anche un giudice svizzero), che non di rado corregge verdetti sbagliati della giustizia nazionale. Un esempio irrinunciabile di autodeterminazione.
L’Unione europea non c’entra
Un’offerta subdola, intrisa di incertezze, di contraddizioni. Pure di menzogne. Secondo i sostenitori dell’iniziativa ogni decisione di Strasburgo ci avvicinerebbe pericolosamente a Bruxelles, dunque al potere smisurato dell’Unione europea (qualcuno ha avuto la sfrontatezza di pronunciare il sostantivo dittatura), da tempo la madre di (quasi) tutte le minacce. La confusione tra la Convenzione europea dei diritti dell’uomo e l’Unione europea è coltivata volutamente, con sfacciataggine, con cinismo, per seminare dubbi, per sviare l’attenzione, per indirizzare verso il sì. Solo che, particolare non trascurabile, si tratta di due realtà completamente diverse. La Convenzione e la Corte di Strasburgo sono un’emanazione del Consiglio d’Europa che raggruppa 47 Stati, del nostro continente e dell’Asia centrale. L’Unione europea non ha nulla, ma proprio nulla da dire in merito a quanto si decide a Strasburgo.
I regimi nazional-sovranisti
Non è insignificante ricordare che il Consiglio d’Europa non è soltanto Convenzione e Corte dei diritti dell’uomo. Esso ha prodotto ben 221 accordi, che il nostro Paese ha ratificato in gran parte, concernenti, tra l’altro: la lotta contro la tratta degli esseri umani, uno scudo contro il terrorismo, il contrasto del doping, la protezione dell’ambiente, quella delle minoranze nazionali.
Al di fuori di questa meritevole organizzazione – non si tratta di fantascienza siccome ciò potrebbe avvenire a lunga scadenza – la Confederazione si troverebbe storicamente in ottima compagnia: la Bielorussia del dittatore Lucascenko, che continua ad applicare la pena di morte, la Grecia, l’unico Stato ad aver denunciato la Convenzione al tempo dei peggiori anni della dittatura dei colonnelli, la Turchia, che ha annunciato la sospensione del trattato a seguito dell’istaurazione dello stato d’emergenza dopo il tentativo di colpo di mano di due anni fa, la Russia, che nel 2015 ha deciso di non applicare più le decisioni della Corte di Strasburgo quando queste sono incompatibili con la sua Costituzione (il nostro diritto prima di quello internazionale…).
Protezione delle minoranze
L’approvazione dell’iniziativa potrebbe sfociare un giorno (chi possiede la boccia di cristallo dell’indovino?) anche in uno smantellamento del plurilinguismo e del multiculturalismo, uno dei valori fondanti del nostro meraviglioso Paese, il cui sistema politico, da tenere stretto, poggia su protezione delle minoranze, bicameralismo parlamentare, federalismo, doppia maggioranza popolo-cantoni in occasione di certe votazioni popolari. Senza questa tutela e altre, come il diritto internazionale imperativo (la totalità delle norme di questa natura**), si potrebbe immaginare un’iniziativa che chieda il divieto dell’insegnamento dell’italiano e del francese, facendo del tedesco l’unica lingua ufficiale del Paese. Se tutti i votanti svizzero-tedeschi – la maggioranza – dovessero schierarsi a favore della proposta, le minoranze francofona e italofona non potrebbero più rivolgersi alla Corte di Strasburgo per far valere i propri diritti.
Garanzia per la sovranità
Il diritto internazionale non è né «straniero» né quello dei più forti, come suggeriscono i promotori dell’iniziativa. Gli accordi di questa natura sono voluti dal Governo e ratificati dal Parlamento, quindi dai rappresentanti del popolo. È bene ricordare che contro decisioni parlamentari contestate è sempre possibile imbracciare l’arma del referendum, uno dei capisaldi della nostra ben funzionante democrazia diretta. Questi trattati, oltre 4 mila, costituiscono uno scudo a difesa degli interessi vitali del Paese, una protezione contro il «diritto dei più forti». Non il contrario! Un Paese piccolo come il nostro ha una sola scelta tra il potere del diritto o il dominio del potere.
**… Secondo l’articolo 53 della Convenzione di Vienna del 1969 sul diritto degli accordi, si tratta delle «norme accettate e riconosciute dalla comunità internazionale degli Stati nel suo insieme in quanto norme alle quali non è permessa nessuna deroga (…)».
Marco Cameroni, già console generale
Opinione apparsa sul Corriere del Ticino, 16 novembre 2018