Gli autori della iniziativa cosiddetta di «autodeterminazione» vogliono che la Svizzera denunci la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU). Infatti considerano questa convenzione come un’opera del diavolo. Il consigliere nazionale UDC Alfred Heer ha insultato la Corte di Strasburgo come «un ascesso purulento». Non si sono nemmeno dati la pena di procedere alla minima analisi delle numerose sentenze che riguardano la Svizzera, sentenze alle quali del resto hanno partecipato dei giudici svizzeri, ciò che gli autori di questa iniziativa UDC cercano di nascondere quando parlano di «giudici stranieri«. Basta ricordarsi alcuni esempi che riguardano la presunzione di innocenza, il diritto a giudici indipendenti, il diritto di informazione delle persone, il controllo sul carcere preventivo, e la giustizia per le vittime dell’amianto.
Ancora fino agli anni ’80, una persona accusata ingiustamente e che fosse stata successivamente assolta da un tribunale svizzero, ciò malgrado poteva vedersi infliggere le tasse di giustizia, nel caso in cui un giudice ritenesse che un suo «comportamento negligente» avesse giustificato l’inchiesta contro questa stessa persona. A giusto titolo la Corte di Strasburgo aveva annullato questa prassi, ritenendo che si trattasse di una condanna implicita, e dunque di una violazione del principio di innocenza (caso Minelli).
Sempre ancora negli anni ’80, certe autorità amministrative svizzere funzionavano come tribunali, sia in fase di inchiesta che in fase di sentenza. Sia la dottrina giuridica che gli avvocati non smettevano di criticare questa prassi. Ma fu necessario l’intervento della Corte di Strasburgo affinché la Svizzera si facesse dire che questa prassi giudiziaria era contraria al principio dell’indipendenza dei giudici (caso Belilos). Già allora il consigliere agli Stati Danioth aveva preteso, fortunatamente invano, nientemeno che la Svizzera denunciasse la Convenzione per la protezione dei diritti individuali e che, quindi, uscisse dalla Corte di Strasburgo. Oggi non è nemmeno immaginabile un ritorno all’indietro verso questa prassi dell’epoca.
Ancora fino all’anno 2000, i tribunali svizzeri non comunicavano, alle persone coinvolte in un procedimento giudiziario, le motivazioni dell’istanza giudiziaria precedente e ciò addirittura anche quando la motivazione dettagliata della sentenza oggetto di un ricorso non figurasse per la prima volta in queste determinazioni. Nel 2002 la Corte di Strasburgo mise fine a questa prassi (caso Ziegler). Oggi non possiamo nemmeno immaginare che le motivazioni decisive di una istanza giudiziaria inferiore non vengano comunicate automaticamente a coloro che ricorrono contro questa sentenza.
Sempre fino alla fine degli anni ’80, i giudici istruttori potevano ordinare la carcerazione preventiva anche nel caso in cui fossero essi stessi competenti per condurre l’istruttoria penale. Nel 1990 la Corte di Strasburgo decise che in questo caso il giudice istruttore non poteva essere considerato come «indipendente» quando decideva sulla privazione della libertà di una persona accusata. Questa sentenza condusse finalmente la Svizzera ad istituire una giurisdizione indipendente incaricata di verificare la legalità della carcerazione preventiva (caso Huber).
Fino a poco tempo fa, le vittime dell’amianto non potevano essere indennizzate che nel caso in cui la malattia, ossia il tumore, si fosse manifestata prima che fosse decorso il termine di prescrizione di dieci anni a partire dalla fine della esposizione della persona a questa sostanza nociva. Il Parlamento svizzero conosceva questo problema ma non ne fece mai nulla. Nel 2004 un operaio esposto all’amianto fu colpito dal cancro della pleura, che lo condusse alla morte. Tutte le istanze giudiziarie svizzere avevano respinto le domande di indennizzo presentate dalla sua famiglia, per il fatto che la prescrizione era intervenuta già nel 1988. Nel 2014 la Corte di Strasburgo giudicò che i termini di prescrizione previsti dal diritto svizzero non dovevano fare ostacolo ad un indennizzo nel caso in cui la malattia fosse sopraggiunta dopo un periodo di latenza di parecchi decenni. Infatti ciò avrebbe costituito una violazione del diritto delle vittime ad un processo giusto (caso Moor). Grazie a questa giurisprudenza della Corte di Strasburgo si poté quindi correggere una prassi giudiziaria che era inammissibile.
Noi dobbiamo proprio alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti individuali e alla Corte di Strasburgo se i diritti dei cittadini e delle cittadine e le loro libertà sono state rafforzate. Conclusione: votiamo no contro l’iniziativa cosiddetta di «autodeterminazione».
Niccolò Raselli, giudice del Tribunale federale svizzero in pensione
Opinione apparsa sul Corriere del Ticino, 19 novembre 2018