Ci sono almeno tre buone ragioni per dire no all’iniziativa «contro i giudici stranieri». Innanzitutto, l’UDC propone una sorta di automatismo per risolvere i conflitti tra il diritto internazionale e il diritto costituzionale, più semplice a dirsi che a farsi; un meccanismo rigido, che impone la rinegoziazione di un accordo e, se del caso, la sua denuncia, ridurrebbe la possibilità di trovare internamente soluzioni pragmatiche, indebolendo a più livelli la posizione svizzera. Secondo, l’iniziativa resta vaga su alcuni aspetti e rischia di generare nuovi problemi in fase di applicazione, con relative polemiche politiche e incertezza giuridica. Meglio lasciare le cose come stanno: chi vuole disdire o non vuole che si firmi un trattato internazionale ha già oggi le possibilità per farlo. La democrazia diretta, che non è affatto minacciata, resta più efficace di certi principi rigidi e astratti. Terzo: l’iniziativa pone le basi per mettere in discussione l’adesione elvetica (avvenuta 44 anni fa) alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, con relative minori garanzie per i cittadini, che hanno nella CEDU un’ulteriore istanza di giudizio per far valere i loro diritti. Anche senza una disdetta formale, la CEDU (che non c’entra niente con l’Unione europea) diventerebbe di fatto inutile in caso di approvazione dell’iniziativa. Come ha ricordato su queste colonne Fulvio Pelli, la Convenzione non dovrebbe più influenzare i tribunali, se i suoi contenuti fossero in contrasto con la Costituzione. Mentre i cittadini potrebbero continuare a ricorrere alla Corte di Strasburgo, chiamata ad applicare le sue norme in contraddizione con quelle della nostra Carta fondamentale. Un’assurdità. Né bisogna dimenticare che nella Corte che applica la CEDU siedono anche due magistrati svizzeri (uno in rappresentanza del Liechtenstein). E che all’elezione dei giudici partecipano i delegati elvetici membri del Consiglio d’Europa.
Questo non significa che non esista un problema e che l’iniziativa non tocchi qualche nervo scoperto. Il conflitto fra diritto costituzionale e internazionale c’è da sempre perché manca una gerarchia chiara. La Svizzera ha ovviato con la cosiddetta «prassi Schubert», in base alla quale il diritto interno è considerato preminente dal Tribunale federale se il legislatore ha intenzionalmente derogato al diritto internazionale. Ma negli ultimi anni sono aumentate le eccezioni. Anche alcuni contrari all’iniziativa hanno lamentato un allontanamento dei giudici di Losanna da questa prassi. Questo non toglie che la soluzione proposta dall’UDC sia inadeguata.
A giusta ragione il dibattito verte sulle implicazioni giuridiche dell’iniziativa, ma quest’ultima andrebbe valutata anche nella sua dimensione prettamente politica. L’impressione, in questo caso come in altri, è che il vero obiettivo non sia quello di trovare rimedi al conflitto fra due diritti, ma di cercare pretesti, tramite soluzioni inapplicabili, per rilanciare i problemi a fini di consenso. L’autodeterminazione è un’occasione per continuare a tenere sotto tiro Governo, Parlamento e tribunali sul tema della sovranità, partendo stavolta da singole decisioni che avevano generato scontento popolare; come nel caso dell’attuazione dell’iniziativa sulle espulsioni dei criminali stranieri e di quella contro l’immigrazione di massa, applicata in forma «ultralight» senza contingenti e tetti massimi per la manodopera estera.
Lo scopo dell’UDC è di ricavarne un ritorno elettorale e al tempo stesso di consolidare le posizioni in vista di prossime battaglie, come quella contro l’accordo quadro istituzionale con l’Unione europea e quella per la disdetta della libera circolazione delle persone.
Innescata da una sentenza del Tribunale federale sul mancato allontanamento dal Paese di un criminale straniero, l’iniziativa era stata lanciata col giusto «timing», sul finire in un quadriennio di forte tensione per il mancato riconoscimento della forza elettorale dell’UDC in Governo, avvenuto solo dopo le elezioni federali del 2015. L’asserita battaglia «contro i giudici stranieri» era l’ultimo anello di una catena di iniziative con le quali il partito aveva condotto la sua politica di opposizione dopo l’improvvida estromissione di Christoph Blocher dal Consiglio federale.
Nulla era stato lasciato al caso. Il deposito della domanda, avvenuto all’inizio di quell’anno, doveva contribuire a tenere alta la visibilità del partito nell’anno elettorale. Passati tre anni – più o meno i tempi tecnici di ogni iniziativa – la votazione popolare cade a fagiolo per marcare il terreno al via della campagna per le federali del 2019. E come nel caso dell’immigrazione di massa, invece di soluzioni chiare si creano nuovi problemi da sfruttare politicamente. Nel caso del 9 febbraio, l’UDC aveva detto che l’obiettivo era di rinegoziare l’accordo sulla libera circolazione e non di disdirlo. Nella campagna di voto aveva fornito indicazioni rassicuranti, per non alienarsi l’appoggio di quella parte dell’elettorato, risultata poi decisiva, che credeva alla possibilità di conciliare libera circolazione e contingenti. L’atteggiamento poi è cambiato. Il partito ha gridato al tradimento della Costituzione quando l’Assemblea federale, di fronte all’ovvio rifiuto dell’UE di mettersi al tavolo, non ha voluto una rottura con Bruxelles. Idem sull’autodeterminazione. L’UDC ha sfumato le sue posizioni anti-CEDU, spostando il discorso sul piano della salvaguardia della democrazia diretta e dell’opposizione alle ingerenze straniere. E per questo ha sfoderato una retorica da battaglia contro i «balivi» e la cosiddetta «casta», come se gli iniziativisti non fossero a loro volta un’élite, dotata di grossi mezzi. Prima si diceva che una disdetta della convenzione poteva entrare in linea di conto in caso di conflitti ripetuti con la Costituzione. Ora che serve una versione più rassicurante, questa tesi è sparita dall’argomentario. Gli iniziativisti sanno benissimo che un attacco frontale all’istituzione di Strasburgo (che, va ripetuto, è totalmente estranea all’UE ed alla sua Corte di giustizia) può solo nuocere e non vogliono rischiare di perdere consensi. Resta da vedere se questo metodo potrà funzionare anche stavolta.
Giovanni Galli
Articolo apparso sul Corriere del Ticino, 22 novembre 2018